Lungamente attesa, più volte abbozzata e altrettante affossata, indiscutibilmente necessaria e resa alla fine improrogabile dallo scioglimento degli enti mutualistici, il 23 dicembre 1978 viene approvata la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Una legge, dice lo storico della medicina Giorgio Cosmacini, con una madre, molti padri e qualche patrigno.
Sebbene, infatti, intervenisse a sanare gravi disuguaglianze (le mutue erano migliaia, ognuna con le sue
convenzioni e le sue coperture), la riforma dovette vincere le resistenze di chi la osteggiava per motivi che andavano dalla difesa corporativa all’interesse economico, e quando finalmente arrivò in Parlamento il voto favorevole fu senz’altro agevolato dall’impegno, da parte dello Stato, a farsi carico di tutti i debiti accumulati dalle mutue nei confronti degli ospedali. Il modello a cui si guardava era quello elaborato nel 1942, in piena guerra, dall’economista inglese William Beveridge su incarico di Winston Churchill: finanziato dalla fiscalità generale, improntato a un criterio di equità e universalismo, svincolava il diritto alle cure dalla condizione lavorativa e lo estendeva all’individuo in quanto tale. A smussare l’ impronta sociale, che nonostante i compromessi la nuova legge conservava, ci pensò la sua
applicazione, affidata al ministro Renato Altissimo, esponente del Partito Liberale che aveva votato contro l’approvazione. Fu poi l’altro ministro della sanità liberale, Francesco De Lorenzo, ad attuare nel 1992 la cosiddetta “controriforma”, che introduceva i ticket e spalancava le porte al privato, avendo cura di diminuire le prestazioni che il pubblico era in grado di erogare: le strutture territoriali furono, infatti, ridotte di due terzi. I tagli draconiani vennero giustificati con la necessità di riportare la spesa sanitaria sotto controllo. A farla esplodere erano stati certamente i mali endemici della pubblica amministrazione italiana, gestione partitica in primis, ma un contributo lo dette anche il lento abbandono della medicina preventiva a favore della sempre più efficace branca diagnostico-terapeutica.
A partire dal ’700, quando la medicina smise di essere una disciplina teorico-speculativa basata sui commenti dei testi antichi, i primi risultati in termini di contenimento della mortalità si ottennero grazie alla prevenzione primaria, ossia alle misure indicate da quella che si chiama “igiene pubblica” o “medicina sociale”, che individuava nelle precarie condizioni abitative e di lavoro la causa delle ricorrenti epidemie di peste e colera. Fu solo con l’avvento di metodi diagnostici e la scoperta di antibiotici e sulfamidici a metà del secolo scorso che si aprì l’epoca dell’ interventismo terapeutico. La rivoluzione farmacologica portò con sé una portentosa capacità di controllo delle infezioni che avevano flagellato i popoli per secoli, ma al contempo generò un inarrestabile incremento progressivo dei costi assistenziali. L’ordinamento sanitario di un Paese travalica la pur fondamentale funzione di tutela della salute e rappresenta lo stesso progetto sociale di quella comunità, proiezione dei valori civili su cui si fonda.
